La storia del Santuario
Il 30 settembre 1574 il rutiglianese Giannantonio Del Vecchio faceva proprie le sue volontà testamentarie affinché con la somma di mille ducati si costruissero “le celle per i monaci cappuccini”, a fianco dell’erigenda chiesa rurale di Santa Maria delle Grazie (circa 1577). La cosa, ebbe un esito diverso – forse perché non corrispondente ai canoni stilistici sanciti nelle Costituzioni dell’Ordine del 1536 – poiché il convento e la relativa chiesa furono edificati attorno al 1612 in un’altra zona della città, in prossimità di una più antica cappella dedicata a San Michele Arcangelo, la cui intitolazione passò alla nuova chiesa mendicante. Come attestano alcuni documenti archivistici del 1630 e del 1634, i lavori della fabbrica religiosa non erano ancora ultimati.
Il complesso conventuale rutiglianese, dunque, fin da principio dovette rispettare alcune caratteristiche architettoniche e decorative comuni a tutti i conventi dell’Ordine, specialmente di quelli pugliesi, che si edificarono tra Cinque e Seicento: la facciata della chiesa, semplice e disadorna, prevedeva un timpano triangolare o un frontone curvilineo (come nel nostro caso), in linea con la sottostante finestra e con il portale d’ingresso; l’interno, di forma rettangolare e a navata unica, terminava con il coro; la volta era a botte e nella parete sinistra si aprivano una serie di cappelle.
Questo impianto rimase sostanzialmente inalterato per almeno un secolo, come certifica la veduta esterna dell’edificio, riportato in una tempera murale del 1736. Una fase di rinnovata veste decorativa interessò la chiesa e il convento cappuccino nella prima metà del XVIII secolo; un’altra, non proprio ottimale, si ebbe attorno agli anni finali del XIX secolo con il rifacimento dell’attuale facciata e la dolorosa perdita di alcuni corpi edilizi (refettorio, chiostro) passati nella proprietà dell’adiacente Istituto Monte dei Poveri (Ospedale). Altre pesanti modificazioni furono perpetrate all’interno della chiesa negli anni Cinquanta del Novecento.
Testo a cura di Giovanni Boraccesi